LETTER FROM MANHATTAN
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Chi dice che i più giovani non abbiano a mente la migliore tradizione jazzistica, mente anche a sé stesso. Basta darsi un’occhiata in giro e spolverare le orecchie dalle frasi fatte e dai déjà écouté che si possono incontrare per strada. Fabrizio Mocata appartiene a un novero probabilmente ristretto, e stretto nella morsa del volere andare avanti a tutti i costi quando non si ha nulla da dire. Il pianista siculo, invece, ha le idee ben chiare, perché alla sua agilità e al suo talento sulla tastiera unisce un particolare gusto per l’armonia, tutto italico. Il suo recente passato è fatto di classica e jazz: ben fusi dalla sua abilità nel far coincidere perfettamente i due linguaggi. Poi, o forse prima, c’è il tango, la musica argentina declinata nella sua terra natia, dove il Nostro è di casa. Questo background, in apparenza, non s’acconcia a questo lavoro. Appunto: solo in apparenza, visto che se è vero che Letter From Manhattan suona quel sano jazz che prende i muscoli e i sensi, è altresì vero che s’intrufolano sotto le sue coperte tante altre musiche, tanti altri linguaggi opportunamente oleati, smussati che pigmentano ogni singolo brano di questo album. Il suono è del piano jazz trio: al fianco del leader ci sono i due «americani» Marco Panascia, geniale interlocutore delle invenzioni ritmiche di Ferenc Nemeth; poi, un’ospite da parterre de rois, il sassofonista George Garzone che lì dove mette la sua voce aggiunge cromatismo e virilità. Un’apparizione speciale la fa Nick Myers, giovanissimo allievo di Garzone, che riscalda con il suo tenore le scanzonate note di Catablus. Fin dal primo brano Just That viene fuori quel gusto diacronico di Mocata che racchiude negli stessi accordi un secolo di jazz in tutte le sue declinazioni irrorato di nuova brina: nelle scelte degli intervalli, nelle esplorazioni modali accennate e nello sviluppo melodico armonioso della frase. Est Side Story garantisce il ricordo delle armonie classiche, care al Nostro, intinte in focose improvvisazioni e nelle rocciose linee di basso, larghe e impeccabili, di Panascia. Bouquet che illumina anche il • di Man Waltz e rimarca i suoni netti, spiccati, puri del pianoforte. Panascia va a nozze con l’up-tempo – quasi un ossimoro – di Depression, con Garzone che furoreggia sui vari registri. Iceberg è una ballad che mette d’accordo il Mediterraneo con la Scandinavia: pause, rarefatte sospensioni e invenzioni rapsodiche costruite intorno a legati di pregio, si lasciano trasportare dalle tanto suadenti quanto determinate spazzole di Nemeth. Con Tango 22 Mocata paga il tributo al suo passato-presente accendendo i riflettori su di un repertorio pianistico fatto sì di obbligati, ma ricco di spunti improvvisativi d’alta marca. Spring ci riporta in quella sacca geografica di confine che unisce terre tenute lontane solo dai chilometri, ma non dalle pieghe culturali che le accomunano. Trisofobia sembra fatto apposta per il tenore vellutato di Garzone, sempre capace di stupire e di offrire brillanti soluzioni. Atmosfere imbrunite avvolgono Conversation, dove la melodia la fa da padrone. In questo disco nulla è lasciato al caso: vi è la cura del particolare, le esperienze di Mocata che vengono fuori non con prepotenza, ma anche con sicura eleganza. Alceste Ayroldi
1 Just That 6’00
2 Est Side Story5’41
3 Man Waltz 4’20
4 Depression 7’19
5 Iceberg 5’28
6 Tango 22 5’39
7 Spring 4’05
8 Trisofobia 6’11
9 Catablus 6’16
10 Conversation 6’21