DOUBLE FACE
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Double Face, l’ultimo disco di Gianfranco Menzella, è programmaticamente un lavoro sul “doppio”.
L’equilibrio e il rapporto tra fiati, l’ambiguità strutturale studio/live nell’approccio alle tracce, la libertà di aderire o tradire uno stile come gioco e paradosso linguistico. E ancora, la chiave hard bop, con temi e soli di lungo respiro, vista con la interessante distanza critica del suonare e registrare senza prove.
C’è una domanda importante nascosta nel disco. Ovunque scorre come traccia carsica ma percepibile: è possibile oggi, nella musica di matrice african american, concedersi ad un ideale di elevazione spirituale senza tradire o perdere il treno di una tradizione liberatoria e orgiastica? C’è ancora un pezzo di cultura popolare in questa coltissima fioritura di bienni jazz?
A tal proposito, l’Hard Bop, quello che si consuma inveterato nei jazz club e nei locali, si rivela qui come un’opportunità di chiarezza ideologica. La dimensione del piccolo live, infatti, è sempre stata congeniale a Gianfranco Menzella, come possibilità di rivolgersi, di mostrarsi con lo strumento direttamente al pubblico, di essere egli stesso mediatore tra alto e basso, tra spirito e senso. Quasi che la musica fosse una specie di bagno di intenzioni incontrollabili nel quale immergere un fraseggio invece a lungo meditato, filtrato e spogliato di ogni seduzione. In questo lavoro di studio, insieme agli ottimi compagni di viaggio, Menzella evoca la natura del locale ad una dimensione e un desiderio astratti. Un aspetto monacale che prende il sopravvento e in qualche modo sposta l’asse comunicativo tutto all’interno delle esperienze dell’interplay.
Il rapporto con J. Magnarelli (tromba), Bruno Montrone (piano), Adam Pache (batteria), Luca Fattorini (contrabbasso) è in tal senso un interessante scambio di battute tra famiglie strumentali. Come se l’hard bop stesso, evocato continuamente, fosse una sorta di volontà manierista di far girare in modo nuovo idee in qualche modo già digerite, già pronte per essere codificate. Uno studio sull’ossessione e la ripetitività delle formule come florilegio dell’invenzione. Ostinati, frammenti di progressioni di ogni tipo, persino esercizi che nel loro ricrearsi, deframmentarsi e poi ricostruirsi in noccioli quasi bachiani non hanno paura di mettersi in evidenza come traccia a ritroso verso le storie personali. Tutto ciò non può non evocare la grande tradizione inaugurata da “The Blues and the Abstract Truth” di Oliver Nelson.
Double face è un lavoro vivo, interessante ed onesto. Talvolta malinconico, talvolta infuocato.
Il latin di Bolivia, di Cedar Walton, con il pedale iniziale che è uno slancio simbolico di tutto il disco.
Il groove e la danza come prassi spirituale in Killer Joe di Benny Golson. L’omaggio al Clint Eastwood dell’Ispettore Callaghan in The Princess. La fusione di Henry Mancini e Sonny Rollins in The Mouse.
Segue poi Peace di Horace Silver, come perla che non può essere mai spiegata. Infine, l’impasto sonoro dei due fiati in Serenity di Joe Henderson, che chiude il disco.
È difficile spiegare come la qualità della musica di questo lavoro nasca da un deserto che affonda le sue radici in una specie di frastuono. Sarebbe l’inizio di una riflessione lunga su Matera, oggi ancora inopportuna e incomprensibile. Il silenzio risonante e la banda, una preghiera per pochi che diventa tradizione, la noia dell’inverno che si trasforma in una sorta di rinascimento segreto. Un modo utile di interpretare la vita tramandato dalle zie, misto a una profonda nostalgia. Ma se abbiamo imparato una lezione dal jazz, è che tutto può e deve far ballare – stomping direbbe Albert Murray – anche il silenzio, anche una preghiera. Fabio Lacertosa
1. BOLIVIA
2. KILLER JOE
3. THE PRINCESS
4. THE MOUSE
5. PEACE
6. SERENITY