OLTREMARE
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Di cosa parliamo quando crediamo di parlare di musica? Mi piacerebbe parlassimo delle persone che la fanno, o perlomeno di quello che di loro possiamo leggere in trasparenza nei gesti coi quali toccano gli strumenti, e (tempi fortunati i nostri), nei suoni che vengono conservati nelle registrazioni. E anche della fatica di abitare lo spazio vuoto che si apre di fronte ai musicisti non appena il tema si conclude e iniziano i soli, della tensione (desiderata, poichè attiene alla creatività) del cercarsi a vicenda tra le poche righe del pentagramma, del gioco da equilibristi sul filo che viene richiesto ogni sera a chi abbia deciso di fare dell’improvvisazione il mezzo principale di comunicazione col mondo. Poi, naturalmente, andrebbe fatto entrare in gioco il materiale dal quale l’improvvisazione scaturisce e trova la sua giustificazione, è un disco di Jazz, vuole esserlo, quindi l’urgenza della pulsazione ritmica rimane l’autentico sistema nervoso centrale del lessico espressivo, talvolta in modo del tutto palese, come accade in “Ljado” (e lo swing implacabile che Motian ci regala in “Sospeso”… a che servono le parole, ascoltatelo), altre appena velata dalle vaste arcate melodiche, in brani come “Aura” o “Solstizio”, dove è la batteria a farsi carico del bisogno di cantare, e i rimandi a tutta la musica suonata e ascoltata che ritrovo nelle linee asimmetriche, da valzer obliquo, di un brano come “Pendolo” mi fanno anche pensare a come sia cambiata questa musica, proprio grazie a figure come quella di Paul Motian, sotto le dita di musicisti della generazione alla quale appartengo. La musica che si è suonata, i brani che abbiamo registrato sono stati scritti appositamente da Pietro per l’occasione, ed è presente tanto il marchio della sua intelligenza da enigmista quanto la necessità di affermare la presenza della melodia, come un ritorno ad una sorta di semplicità di ispirazione guadagnata attraverso la ricerca e sorretta dal perfetto controllo delle strutture armoniche. Cercare di quadrare il cerchio, e cosa se no? E poi mi piacerebbe parlare di come siano stati giorni belli quelli passati assieme a Perugia nel corso della registrazione, poche ore in teatro, praticamente dal vivo, gli strumenti posti molto vicini per potersi ascoltare senza il fastidio delle cuffie, i pomeriggi a passeggiare per le strade della città, dove tutti avevamo suonato in decine di occasioni ma che stavolta ci dava la possibiltà di fare qualcosa destinato a rimanere non soltanto nella memoria, qualche cena in casa di amici a raccontarci le storie che i musicisti amano raccontarsi ed ascoltare. Allora Paul Motian, il limpido alchimista, a rivivere quella volta che, appena ragazzo, fu ospite in una stanza di albergo nella quale alloggiava Lester Young che, circondato dal carisma dell’eleganza senza tempo, se ne stava ad ascoltare il grammofono sorseggiando qualcosa. Noi ad ascoltarlo; Pietro Tonolo che conosco da così tanti anni da sentirmi quasi un suo parente, ricordo bene la prima volta che mi capitò di sentirlo suonare, non avevamo nemmeno vent’anni ma lui aveva già definito le linee della propria poetica, Riccardo Zegna, l’uomo musica, in grado di fare proprie tutte le note, fermate sulla carta o appena accennate da una voce lontana, nella quale abbia occasione di imbattersi. La musica come qualcosa che parla delle persone che la fanno a chiunque abbia ancora il desiderio di ascoltare.