SECRET STORIES
PAGNUTTI- MAURIZIO
Codice EAN
8028958000820Etichetta
ARTESUONOData di pubblicazione
21/02/2011€13,47
Disponibile
Storie segrete: l’abbraccio con la tradizione
Il vigoroso tema di Jimmy Forrest “All the Gin is Gone” è il grimaldello che il Maurizio Pagnutti Sextet ha adoperato per schiudere le porte della tradizione; quella del jazz a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, periodo in cui tanti alfieri hanno rimarcato il loro legame con le radici della musica nera, in particolare il blues.
Lo ha fatto il tenorsassofonista autore della composizione di apertura che (dopo una carriera che lo ha visto collaborare anche con Ellington e Davis) ha conquistato la fama nel 1952 proprio con l’incisione rhythm’n’ blues “Night Train”. Non la forma ma la sostanza del blues informa infatti “All The Gin Is Gone” che dagli studi di Chicago del 1959 giunge a noi rimodellata dal direttore musicale Bruno Cesselli che per l’occasione ha imbastito un inedito special poliritmico e una gustosa ed ironica coda. Perché l’abbraccio con la tradizione il Maurizio Pagnutti Sextet lo ha ingaggiato senza alcun intento di mostrarsi ossequioso. La trascrizione dei 10 brani non originali di “Secret Stories” è servita solo come punto di partenza; poi arrangiamenti nuovi di zecca, peculiari soluzioni improvvisative, singolari impasti timbrici hanno trasformato ciò che avrebbe potuto cadere nella asettica filologia in un tributo creativo (e affettuoso) ad una stagione della storia del jazz.
Si raffrontini quale prova le incisioni originali di “Bachafillen” e “Not Quite That” che il trombonista Garnett Brown ha inciso nel 1966 con le versioni di questo CD. Ad esempio l’impiego di suggestive sezioni polifoniche nel tema di “Bachafillen” e nella coda di “Not Quite That” sono farina del sacco dei nostri musicisti.
La polifonia, scritta o improvvisata, è stata utilizzata con una certa parsimonia dai maestri dell’hard bop; qui invece questo colore attraversa alcune pagine di grande fascino quali l’introduzione e soprattutto la coda di “Sakara” di Francis Boland che risuona (bonariamente) minacciosa quanto la jungle ellingtoniana o l’introduzione ed il tema di “Bess”. Certamente estraneo al movimento dell’hard bop ma non all’estetica del jazz il celeberrimo tema che il compositore John Barry scrisse per la pellicola omonima “Goldfinger”. L’autore di colonne sonore aveva studiato con il kentoniano arrangiatore Bill Russo e la sua musica, in particolare “Goldfinger”, risente di questi trascorsi. La nostra incisione ragionevolmente rinfocola i colori jazzy della partitura originale in virtù anche delle ispirate improvvisazioni, in particolare quella, che si snoda su una porzione del tema trasformata in vamp finale, del trombonista Mauro Ottolini. Egli per il suo solo in “Goldfinger” adotta la sordina plunger; e lo farà in altri passi del disco tra i quali il blues “Terrible T” per la quale improvvisazione impiegherà le spezie arabe della scala minore con un lirismo capace di allontanare qualsiasi frusto esotismo. “Terrible T” è di penna di Lee Morgan, in fondo il numero tutelare di “Secret Stories”, del quale sono rilette alcune composizioni piuttosto neglette come la luminosa “Bess”, la malinconica (con quel movimento cromatico discendente del basso) “Mogie” che nondimeno contiene una sfavillante sezione B, il già citato blues minore “Terrible T”, assieme a opere che il trombettista affidò ad altri compositori come “Off Spring” della leggera penna di Milt Jackson e “Running Brook” di Wayne Shorter. Questi titoli, scelti con acume da Pagnutti, furono riuniti nel 1960 nell’album “Here’s Come Lee Morgan”. Un disco che non ricevette alcun apprezzamento dalla critica, la quale mostrò addirittura disinteresse per la carriera di Morgan almeno sino al 1964. Per l’LP in questione, John Tynan, uno dei giornalisti di punta di Down Beat nella recensione del 24 novembre 1960 ebbe solo parole di rimprovero. Di ben altro atteggiamento i componenti del Maurizio Pagnutti Sextet, che hanno dimostrato la loro ammirazione per quelle musiche attraverso assoli straordinari e arrangiamenti mai banali; e neppure “Running Brook” ha fatto vacillare la loro fede. La composizione mostra un tratto peculiare delle opere di Shorter della prima metà degli anni Sessanta: ampi percorsi armonici (il tema è di 64 misure) infittiti da accordi che spesso conducono a torsioni armoniche inaspettate. In particolare il sassofonista stava sviluppando in quel periodo la propria visione di quelle relazioni di terza che mandavano in sollucchero John Coltrane e che proprio in “Running Brook” mostrano la loro prima occorrenza. Insomma i musicisti di “Secret Stories” (probabilmente a differenza del recensore di Down Beat) erano ben consapevoli delle insidie nascoste in quelle pagine, eppure a testa alta le hanno comunque affrontate, tutte. A noi ascoltatori sono giunte profondamente trasformate s’intende; perchè l’agonistico jazz non conosce altro modo per rendere omaggio alla tradizione.
Luca Bragalini